Arco di Giano Quadrifronte e la chiesa di San Giorgio al Velabro
Il soggetto
Le due tempere, che rappresentano due vedute di Roma, Tor de’ Schiavi e il Velabro, costituiscono un’importante testimonianza della città scomparsa e della campagna romana brutalmente mortificata. L’Arco di Giano Quadrifronte, fatto costruire da Costanzo II nel IV secolo, sorge poco distante dal tempio di Ercole e dal tempio di Portuno, nella zona del Velabro, il cui toponimo proviene dalla valle omonima, che dal Foro Romano giungeva al Tevere, da questo spesso alluvionata. L’edificio, a pianta quadrata, è da identificare con l’Arcus Costantini, menzionato nella regione XI dei Cataloghi Regionari del IV secolo. Nel 1830 andarono perduti l’attico e il coronamento originari dell’Arco, perché non furono riconosciute come opere appartenenti alla struttura originaria. Nel VII secolo, probabilmente sui resti di un edificio civile di epoca classica o di una diaconia, sorse, ad opera di Papa Leone II, la chiesa di San Sebastiano e di San Giorgio. Fu intitolato solo a quest’ultimo al tempo del greco papa Zaccaria (741-752), che trasferì dalla Cappadocia la testa del martire Giorgio. Resti di un Mausoleo, usualmente definito Tor de’ Schiavi e risalente all’età dioclezianea (IV secolo), sono oggi inseriti nell’area occupata dal parco pubblico di Villa Gordiani, compresa tra il secondo e il quarto chilometro della via Prenestina. La villa prende il nome dalla famiglia imperiale che, tra il 225 e il 244, fece costruire, sui resti di una villa di età repubblicana, una lussuosa residenza suburbana. Realizzato su due piani, il Mausoleo era coperto da una volta a cupola e presentava lungo la parete circolare sette nicchie. Il rudere si presentava, in origine, con un portico a colonnato con gradinata, oggi scomparsa. Il toponimo Tor de’ Schiavi deriva dalla famiglia di Vincenzo Rossi dello Schiavo, che nel 1571 entrò in possesso dell’area, già appartenuta ai Colonna, le cui truppe, nel 1347, mossero da qui alla volta di Roma per combattere contro Cola di Rienzo.
Il dipinto
Nella fondamentale monografia di Andrea Busiri Vici, l’opera del pittore romano Giovan Battista Busiri viene analizzata da un punto di vista approfondito, collocandolo così nel novero del paesaggismo classicista settecentesco che da Locatelli giunge a ritroso fino a Claude Lorrain. Giovan Battista si è alternativamente impegnato in vedute di realtà e in vedute ideate, lasciando un contributo importante nella definizione di un genere che, avviato da Vanvitelli all’inizio del XVIII secolo, fu esercitato dai maggiori protagonisti della seconda metà del Settecento. Furono i viaggiatori del Grand Tour, soprattutto inglesi, a decretare la fama di queste gustose vedute, reali o ideate, a tempera o olio, divenendone i più assidui e fedeli collezionisti del tempo. Le collezioni inglesi sono ancora oggi ricche di pittura italiana, tanto da rappresentare spesso le fonti di approvvigionamento più preziose per le opere di Batoni o Luti, di Locatelli o dello stesso Busiri. Al Fitzwilliam Museum di Cambridge e al British Museum di Londra sono conservati due importanti album di disegni, la cui analisi fa evincere l’originalità dell’artista, nonché la sua capacità di catturare angoli simbolo di Roma e della sua campagna. Questi schizzi di basiliche, conventi, porte, ponti, herbose ruine sono eseguiti con impressioni nette, fresche ed immediate, accompagnati da uno stile libero e disinvolto. Le vedute a tempera o a olio, pur rimanendo fedeli al testo grafico, vengono inquadrate dall’artista da una maggiore distanza e sono tutte caratterizzate da un chiaro senso della profondità e della prospettiva. L’inquadratura, ripresa dal lato sud-ovest, comprende da sinistra la chiesa di San Giorgio al Velabro, l’Arco di Giano con l’attico in laterizi ancora in situ, un gruppo di casupole sulla destra, parzialmente coperte da verdi lecci. In primo piano, un piccolo specchio d’acqua, arricchito da una cascatella, ospita due eleganti cigni bianchi, mentre sulla sponda due figure maschili si rilassano al sole. Il tema dei nivei uccelli, cari al Busiri quanto gli alberi frondosi, corre sulla linea del nobile paesaggismo classico romano che da Locatelli e van Bloemen arriva a Claude Lorrain. L’intera rappresentazione è arricchita da personaggi che contrappuntano i diversi monumenti: il carretto con buoi e bovari, forse proveniente dal non lontano campo Vaccino, passa nei pressi dell’Arco; due mendicanti chiedono elemosina di fronte ai portici della chiesa; altri parlottano tra loro mentre entrano nell’edificio sacro. Sembra di respirare il sapore della quotidianità dei quadri di Vanvitelli. Anche la luce, diffusa e tersa ricorda il maestro fiammingo. Uno schizzo a penna su carta raffigurante un rudere della campagna romana, recante sul retro la scritta autografa «Tor de Schiavi», è replicato in una delle due tempere qui presentate e in un’altra tempera su carta, conservata nella collezione R.W. Ketton-Cremer Esq. Felbrigg Hall di Norwich. Quest’ultima mostra sul retro la scritta «Ancient ruin near Rome called Torre dei Schiavi supposed to have been a temple of peace. G. B. Busire pinxit Romae 1740», consentendoci quindi di stabilire anche per la nostra una ragionevole datazione intorno al 1740. Un tema utilizzato anche da Hendrick Frans van Lint nei sui dipinti, fu anche il complesso monumentale della via Prenestina che era nel XVIII secolo tra le mete dei viaggiatori del Grand Tour a Roma. Busiri godette della stessa stima e dello stesso successo di suoi colleghi più famosi; tale che la sua concezione di veduta dovette far scuola. A lui si ispirarono altri artisti quali la pittrice ligure Maria Luigia Raggi, come si evince da alcune tempere formato panoramico conservate ai Musei Capitolini, e a lei recentemente attribuite.