Archeologia | Scultura | Statuaria | Statua acefala di Zeus seduto | Descrizione opera

Marmo bianco

Alt. tot. 82 cm; largh. 35 cm; prof. 37,5 cm

Seconda metà II d.C.


Scheda opera

Statua acefala di Zeus seduto

La scultura, che mostra un personaggio virile coperto da ampio mantello seduto in trono, è chiaramente identificabile con Zeus per l’iconografia ampiamente attestata in numerose repliche statuarie e confermata dall’attributo conservato della folgore impugnata nella mano destra. Presenta un’ampia frattura che dal collo attraversa il torace per giungere al fianco destro.

La divinità è seduta su un trono con alto schienale curvilineo, senza braccioli e con gambe rettangolari dal profilo curvilineo a doppia gola, come appare in numerosi affreschi e rilievi romani, e deriverebbe direttamente da esemplari greci; un esempio è riscontrabile nel rilievo della fronte di un sarcofago, conservato nei Musei Vaticani, dove è raffigurato Plutone su un trono identico al nostro nella forma (160 – 170 d.C.).

Nel nostro esemplare Zeus si presenta frontalmente con una certa naturalezza nella postura per le spalle inclinate e la gambe flesse. La spalla destra è abbassata ad assecondare il movimento del braccio che rilassato si appoggia sulla gamba corrispondente tenendo nella mano la folgore, mentre la sinistra appena alzata ed aperta doveva sostenere l’alto scettro, perduto nel nostro esemplare, ma facilmente ricostruibile. In posizione antitetica la gamba destra si flette poggiando solo la punta del piede, mentre il tallone si accosta alla base del trono, in corrispondenza del braccio destro piegato, mentre la gamba sinistra è avanzata con tutta la suola aderente al suolo, in corrispondenza ora del braccio aperto lateralmente a sostenere lo scettro. Il leggero ritmo di flessione della parte superiore del corpo e la posa della gambe tendono ad accentuare la penetrazione in profondità.

Il torso è nudo con una leggera flessione verso destra, mentre il grembo e le gambe sono coperte dall’himation, che parzialmente ricade lateralmente sulla gamba sinistra addensandosi in numerose pieghe, mentre il resto del panneggio dopo aver avvolto la schiena, si posa ampiamente sulla spalla sinistra. La resa anatomica del nudo mostra un corpo in età matura, senza però eccessi volumetrici: i pettorali sono ampi e delineati con l’arcata epigastrica non troppo accentuata; la linea alba segue il leggero flettersi della figura verso destra; l’ombelico a fessura è evidenziato dalla doppia piega di un leggero strato adiposo, che sembra ammorbidire la struttura muscolare.

Di buona resa stilistica è il manto panneggiato sulle gambe per il preciso delinearsi delle pieghe da cui emergono prepotentemente le ginocchia flesse che tendono la stoffa dell’himation. Quest’ultimo produce abili effetti chiaroscurali proprio grazie alle profonde solcature delle pieghe che si presentano parallele e morbide sulle cosce e poi divergono più tese e diagonali dal ginocchio destro sporgente verso la caviglia sinistra, dietro cui la stoffa gira per essere trattenuta obliquamente sotto la coscia sinistra, creando un ampio addensarsi di pieghe.

Purtroppo è mancante della testa come molte altre repliche del soggetto in marmo; infatti il nostro tipo iconografico è riprodotto in numerosi altri esemplari sia in marmo che in bronzo, e su rilievi e lucerne.

Tra le copie in marmo più famose ricordiamo lo Zeus “Verospi” conservato nei Musei Vaticani, Sala dei Busti, dove la figura della divinità è riprodotta in posizione chiastica. Da osservare invece, che nel nostro esemplare la posizione è invertita: alla gamba destra portata in avanti corrisponde il braccio sinistro sollevato, oggi mancante, che teneva lo scettro, e alla gamba destra flessa indietro, coincide il braccio abbassato poggiato sulla gamba con in pugno la folgore.

Notevoli, invece, sono le somiglianze con un’altra replica conservata nel Museo Nazionale Romano, databile nella seconda metà del II d.C., che si distingue per l’aggiunta dell’acquila accovacciata presso il dio, verso il quale probabilmente volgeva il capo, nella stessa iconografia utilizzata per primo da Alessandro Magno e ripetuta poi in numerose statue imperiali.

Queste copie sono da ascrivere alla serie delle repliche, eseguite tutte in età imperiale romana dipendenti dall’immagine di Giove Capitolino creata da Apollonios, così come è visibile nelle rielaborazioni della Triade Capitolina tra cui i bronzetti provenienti da Pompei, conservati nel Museo Nazionale di Napoli di età neroniana e il celebre gruppo in marmo lunense nel Museo Archeologico di Palestina, di periodo tardo antoniniano (160 – 180 d.C.). Proprio in quest’ultima la raffigurazione di Giove trova importanti analogie con la nostra statua: medesima impostazione degli arti, trattamento delle pieghe del panneggio nella ricerca di chiaroscuro.

Quindi la nostra scultura di Giove potrebbe rappresentare una copia molto fedele dell’originale simulacro capitolino e per le dimensioni non eccessive potrebbe essere una testimonianza della trasposizione del culto della divinità nella sfera privata.

Inoltre in base ai confronti analizzati e alle caratteristiche stilistiche è possibile datare l’opera intorno alla metà del II d.C.